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Prescrizione: si o no?

Enzo Pirrotta – MMG Referente Nazionale SNAMID Area Cardiovascoalre 

Oggi i Medici di Medicina Generale sono sempre più pressati dai Sistemi Sanitari Regionali (SSR) italiani che cercano di limitare l’uso eccessivo di IPP con diverse misure amministrative finalizzate a promuovere l’appropriatezza prescrittiva. SNAMID presenta il primo di una serie di articoli che vogliono aiutare il MMG a decidere cosa prescrivere con la consapevolezza di aver fatto una buona scelta per il paziente e non solo per il SSR.

Il 22 giugno 2015 l’AIFA ha pubblicato sul proprio sito la pillola dal mondo n 799 che così recita:
“Alcuni ricercatori statunitensi dell’Università di Stanford e dello Houston Methodist Research Institute hanno indagato la possibile associazione tra eventi cardiaci acuti, tra cui l’infarto del miocardio (anche in soggetti che non presentavano precedente storia di eventi cardiovascolari gravi) e l’assunzione di inibitori di pompa protonica (PPI), largamente impiegati per il trattamento a lungo termine della malattia da reflusso gastroesofageo. Utilizzando la tecnica del data-mining (una sorta di analisi matematica eseguita su database di grandi dimensioni e condotta allo scopo di scoprire pattern significativi) gli autori dello studio, pubblicato lo scorso 10 giugno su Plos One, hanno analizzato 16 milioni di informazioni cliniche (relative a 2,9 milioni di pazienti) estratte da diversi database, coprendo un arco temporale complessivo di quasi 20 anni (dal 1994 al 2012).

I risultati della ricerca hanno evidenziato un aumento del 16% di eventi cardiaci avversi collegati all’impiego degli inibitori di pompa protonica, associazione che non si evidenzia invece con l’utilizzo degli anti-H2”
“Coerentemente con i risultati pre-clinici in nostro possesso – commentano i ricercatori – che evidenziavano come i PPI influenzino negativamente la funzione vascolare, il nostro studio ribadisce l’associazione tra l’esposizione ai PPI e il rischio di infarto miocardico nella popolazione generale. Questi dati forniscono un esempio di come una combinazione di studi sperimentali e approcci di data-mining possono essere applicati per sfruttare i segnali di sicurezza dei farmaci per ulteriori indagini.”

Lo studio presenta alcune limitazioni: prima fra tutte la possibilità che i pazienti in trattamento con gli inibitori di pompa protonica soffrissero già di altre patologie e che questi medicinali fossero prescritti confondendo i sintomi dell’angina pectoris con quelli del reflusso gastroesofageo.
Tuttavia, la ricerca evidenzia dei rischi per la salute associati all’uso prolungato di tali medicinali, benché sia ancora prematuro, data la necessità di ulteriori studi, ricorrere alla modifica dell’attuale pratica clinica.”
Lo scopo di questo lavoro di Nigam H. Shah pubblicato su Plos one il 10/06/2015 DOI: 10.1371/journal.pone.0124653 era esplorare la possibilità che gli inibitori di pompa protonica potessero essere associati a un aumentato rischio cardiovascolare nella popolazione generale statunitense. Rischio secondo gli autori basato sulla riduzione causata da tali farmaci della produzione di ossido nitrico nelle cellule che rivestono l’interno del sistema circolatorio, compreso il cuore. E i risultati confermano l’ipotesi: tra i pazienti con reflusso gastroesofageo, l’esposizione a inibitori di pompa protonica si lega a un aumento del 16% del rischio di infarto miocardico. Inoltre, da una sotto-analisi emerge che gli inibitori di pompa protonica raddoppiano la mortalità cardiovascolare, con risultati significativi a prescindere dall’uso di clopidogrel, utilizzato come marcatore di eventi cardiovascolari precedenti, Al contrario gli H2-bloccanti, usati anch’essi nel trattamento del reflusso gastroesofageo, non sono associati a un aumento del rischio di eventi cardiovascolari.

Ma David Johnson (NEJM Journal Watch 17/06/2015), sottolinea i molteplici rischi di malattie concomitanti nei pazienti con reflusso, tra cui l’obesità e le malattie metaboliche correlate, e conclude, considerato che:

ammesso che i dati dello studio di Shah siano veri o almeno non distorti dai bias di selezione del campione, dovremmo trattare con un PPI 4000 pazienti per causare un infarto
gli autori citano un vecchio lavoro del 1996 che dimostrerebbe che i PPI riducono l’effetto del clopidogrel, ignorando una pubblicazione in N Engl J Med 2010; 363:1909 da cui è scaturita una evidenza di tipo 1 sul fatto che i PPI non alterano i maggiori endpoints cardiovascolari e riducono decisamente le complicazioni gastrointestinali
il presupposto che I PPI interferiscano con la funzione endoteliale mediata dall’ossido nitrico è stata confermata nell’animale, ma mai dimostrata nell’uomo (Vasc Med 2015 Apr 2; [e-pub)

La preoccupazione verso le sole conseguenze cardiovascolari non è sufficiente per non prescrivere un PPI.
Questo dibattito si inserisce in un momento storico nel quale i Sistemi Sanitari Regionali italiani cercano di limitare l’uso eccessivo di IPP con diverse misure amministrative finalizzate a promuovere l’appropriatezza ; ora questa pillola AIFA minaccia di essere un ulteriore problema nel percorso decisionale del MMG, in quanto prospetta scenari medico-legali relativi alla safety dei farmaci prescritti.
Cosa fare dunque? E’ lo stesso David Johnson che suggerisce una posssibile via di uscita: la stratificazione del rischio CV dei pazienti potenziali assuntori di IPP. Quelli con rischio cardiovascolare ben riconosciuto non dovrebbero essere presi in considerazione ai fini di una terapia, a causa di un potenziale sbilanciamento verso l’effetto dannoso degli inibitori di pompa protonica.