Dall’American Heart Association 2014
Sintesi e commenti di alcune novità per il MMG
A cura di: Enzo Pirrotta – referente nazionale SNAMID – area cardiologica
Lo Studio DAPT: la maggiore durata della duplice terapia antiaggregante dopo impianto di stent riduce il rischio di trombosi coronarica e reinfarto ma…
Dopo Chicago 2014 possiamo affermare che pazienti che assumono due farmaci anti-aggreganti oltre i normali 12 mesi dopo impianto di stent hanno probabilità significativamente inferiori di sviluppare coaguli di sangue nella sede dello stent o di avere un infarto rispetto a quelli il cui trattamento è stato fatto seguendo il protocollo standard di 12 mesi. I ricercatori hanno scoperto che i partecipanti allo studio DAPT Dual che assumevano aspirina più un altro tipo di farmaco anti-aggregante (clopidogrel o prasugrel) – per 30 piuttosto che 12 mesi dopo impianto di stent: avevano probabilità 0,5 volte inferiore di sviluppare thrombos in-stent rispetto ai pazienti che hanno ricevuto la duplice terapia per 12 mesi, seguiti dall’associazione aspirina e placebo per 18 mesi (gruppo placebo) e presentavano una riduzione di circa la metà del rischio di nuovi infarti rispetto al gruppo placebo.. Lo studio DAPT (Dual antiaggregante Therapy) è finora il primo e l’ unico studio che ha confrontato la durata del trattamento con la terapia antiaggregante che sia stato adeguatamente dimensionato per rilevare un vantaggio sugli infarti correlati a trombosi intrastent Anche la safety di un trattamento a lungo termine è stata valutata in questo processo. Anche se il rischio di sanguinamenti moderati è risultato più frequente nel gruppo che assumeva i farmaci rispetto al gruppo placebo nello studio, le emorragie fatali sono state rare in entrambi i gruppi di pazienti. Mentre le percentuali di ictus e i tassi di mortalità non risultavano ridotti, estendendo il trattamento combinato, i ricercatori hanno notato in un’analisi secondaria, che la morte per qualsiasi causa era dello 0,8 %superiore (2,3 per cento vs 1,5 per cento) nel gruppo che assumeva farmaci rispetto a quelli trattati con placebo.. Un’analisi secondaria ha rivelato che il tasso di mortalità più alto è attribuibile a traumi e tumori . Lo studio DAPT, studio internazionale durato 5 anni, ha arruolato 25.682 pazienti. 22.866 hanno ricevuto stent a rilascio di farmaco, e di questi 9.961 pazienti (età media 62 anni, circa il 25 per cento di sesso femminile, e per lo più dagli Stati Uniti) sono stati randomizzati nell’analisi primaria. I ricercatori hanno assegnato in modo casuale i pazienti a uno dei due gruppi, e né gli investigatori né i pazienti sapevano chi riceveva il farmaco rispetto al placebo. Lo studio si è svolto da agosto 2009 a giugno 2014, a più di 450 siti negli Stati Uniti, Canada, Europa, Australia e Nuova Zelanda. Limitazioni dello studio includono il fatto che comprendeva solo pazienti che tolleravano farmaci anti-aggreganti per un anno; e il follow-up si è concluso dopo 33 mesi, anche se i dati dello studio suggeriscono che la più lunga durata del trattamento può fornire benefici aggiuntivi.
Commento
Lo studio mi ha convinto nel senso che qualche mese in più di doppia terapia antiaggregante, nonostante i dettami di eventuali piani terapeutici, non fa per niente male, anzi! A patto che i medici prendano in considerazione i rischi individuali dei pazienti a cui si prescrive la doppia antiaggregazione. In particolare, non dovrebbero assumerla i pazienti con una storia di sanguinamento maggiore, sia prima della procedura di impianto dello stent o entro il primo anno di trattamento.
IMPROVE-IT trial: in prevenzione secondaria (dopo ricovero per sindrome coronarica acuta) statina o associazione statina/ezetimibe?
Lo studio IMPROVE-IT dimostra che nei pazienti ad alto rischio per sindrome coronarica acuta ( gli arruolati erano pazienti irecentemente dimessi per STEMI , Nstemi e angina instabile) l’aggiunta di ezetimibe alla terapia con statine riduce il colesterolo LDL in media del 17 mg / dL, diminuendo soprattutto gli eventi cardiovascolari rispetto alla terapia con la statina da sola. Niacina, fibrati, ed inibitori del CETP aggiunti alle statine hanno tutti fallito nell’ottenere un vantaggio. Ma ezetimibe più simvastatina nello studio IMPROVE-IT ha ridotto il tasso di morte cardiovascolare, infarto miocardico, o ictus di 2 punti percentuali (34,7% per la sola simvastatina rispetto al 32,7% per l’ezetimibe, la media di LDL-C nel braccio simvastatina era 69,9 mg / dL rispetto a 53,2 mg / dL nel gruppo ezetimibe / simvastatina). Non c’era differenza nell’HDL-C, né vi era una differenza di PCR ad alta sensibilità, che è considerato un marker di aumentato rischio di eventi cardiovascolari. Lo studio randomizzato che ha incluso 18.000 pazienti con SCA stabilizzata – circa il 40% dei quali provenienti dal Nord America – suddividendoli in un gruppo trattato con 40 mg di simvastatina e in gruppo trattato con 10 mg di ezetimibe / simvastatina 40 mg. I pazienti che avevano LDL superiori a 79 mg / dL sono stati up-titolati a 80 mg di simvastatina. I pazienti sono stati seguiti a 30 giorni e poi ogni 4 mesi fino a quando il trial ha presentato 5.250 eventi, definiti come infarto miocardico, ictus, morte cardiovascolare, rivascolarizzazione, o ospedalizzazione per angina instabile L’età media dei pazienti era 64 anni e circa un quarto erano donne. Al basale la media di LDL-C era 95 mg /dL. “I risultati dello studio contribuiranno a espandere le nostre opzioni di trattamento per i pazienti con SCA ad alto rischio, soprattutto tra coloro che sono intolleranti o che non ottengono i risultati desiderati con la terapia con statine ad alte dosi”, ha detto Lori Mosca, Professore di Medicina presso la Columbia University Medical Center e direttore della Cardiologia Preventiva presso la New York-Presbyterian Hospital. “Questi risultati sono in linea con decenni di ricerca in pazienti con sindrome coronarica acuta ad alto rischio che affermano la centralità della riduzione aggressiva delle LDL nella prevenzione delle malattie cardiovascolari ricorrenti. Suggeriscono inoltre che dovremmo prendere in considerazione la riduzione delle LDL a livello ancora più basso nei nostri pazienti ad alto rischio ( ricordiamo che la media di cLDL all’arruolamento era 95 mg/dl) per ottenere il massimo beneficio per prevenire le malattie cardiache e ictus ricorrenti “, ha continuato Mosca.
Ma nella sessione “ Friday Feedback : Will IMPROVE-IT Trial affect Primary Care?” inostri colleghi americani di Primary Care non sono stati altrettanto ottimisti rilevando che i risultati del trial sono stati solo debolmente positivi : una riduzione di eventi intorno all’8% nel gruppo sinvastatina/ezetimibe non può ritenersi tale da modificare tout cout “ l’impact on practice”. I risultati di questo trial non impattano assolutamente sulla prevenzione primaria, essendo il campione dello studio una coorte di soggetti con malattia coronarica ad alto rischio. Proprio per questo motivo l’NNT pari a 56 rende la terapia di associazione a rischio di sostenibilità economica. Non c’è prova sufficiente per affermare che in una coorte come quella arruolata dall’IMPROVE-IT la riduzione di mortalità e morbidità si possa solo attribuire alla riduzione di cLDL. I precedenti trial con simvastatina/ezetimibe in prevenzione primaria avevano fallito e un risultato modestamente positivo dell’associazione in prevenzione secondaria necessita di altre prove.
Commento
Immagino che in area mediterranea è difficile che qualcuno pensi ad abbassare ulteriormente un valore medio, all’arruolamento di cLDL pari a 95 mg/dl :oltretutto ottenuto con l’impiego della sola simvastatina, pur in una popolazione ad alto rischio , ma comunque già a target. Poi, le critiche dei colleghi generalisti americani. Non sono prive di buon senso. Credo che continuerò ad usare l’associazione in prevenzione secondaria secondo le indicazioni AIFA: in prima battutta nell’insufficienza renale cronica e in regime di terapia sartoriale nella cardiopatia ischemica.
JPPP trial: una aspirina a basso dosaggio al giorno non ha ridotto in modo significativo il rischio di morte cardiovascolare, ictus non fatale, infarto miocardico non fatale in anziani con fattori di rischio aterosclerotici.
Lo studio Japanese Primary Prevention Project (JPPP) ha valutato 14.464 pazienti di età compresa tra 60 e 85 anni che presentavano ipertensione, dislipidemia, o diabete mellito arruolati in Giappone tra il marzo 2005 e il giugno del 2007 per un massimo di 6,5 anni. I pazienti sono stati randomizzati 1: 1 ad aspirina 100 mg/die o nessuna aspirina in aggiunta alla terapia in corso. L’end point primario composito era rappresentato da morte per cause cardiovascolari, ictus non fatale e infarto miocardico non fatale. Lo studio è stato interrotto precocemente dopo un follow-up di 5,02 anni sulla base dei dati preliminari che evidenziavano l’inutilità della terapia aggiunta. Sia il gruppo aspirina che il gruppo controllo si sono verificati 56 eventi fatali. I pazienti che hanno presentato un ictus non fatale sono stati 114 nel gruppo aspirina e 108 nel gruppo placebo; un infarto miocardico non fatale è stato registrato in 20 soggetti nel gruppo aspirina e 38 nel gruppo placebo; si è avuto un evento cerebrovascolare in 3 pazienti nel gruppo aspirina e 5 nel gruppo placebo. L’analisi di regressione ha indicato che il rischio di un evento end point primario era maggiore negli uomini vs donne (parametro stima, 0,34, HR, 1.41 [95 per cento CI, 1,14-1,74]; P = .002).
Commento
E’ ormai risaputo che la terapia con ASA in prevenzione cardiovascolare primaria non sia propriamente una terapia evidence based per la maggior parte dei pazienti , ma molti sostengono che nei soggetti ad alto rischio, senza precedenti di sanguinamenti gastrointestinali, l’ASA in primaria ha ancora un suo ruolo. Questo studio ci può consegnare che tra questi soggetti ad alto rischio da oggi forse non ci saranno più gli anziani ( a rischio per definizione!) con fattori di rischio aterosclerotici!
SUPPORT Trial: ovvero della doppia inibizione del RAS nei pazienti ipertesi con scompenso cardiaco
L’aggiunta di olmesartan non migliora gli esiti clinici ma peggiora la funzionalità renale nei pazienti ipertesi con insufficienza cardiaca già in trattamento con ACE inibitori e beta bloccanti. I ricercatori hanno voluto esaminare in questo trial se un trattamento additivo con il bloccante del recettore dell’angiotensina olmesartan, riduce la mortalità e la morbilità nei pazienti ipertesi con insufficienza cardiaca cronica) trattati con inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-inibitori) e beta-bloccanti. Lo studio in aperto, randomizzato, prospettico ha arruolato 1.147 pazienti con CHF e storia di ipertensione (età media 66 anni, 75% di sesso maschile, FE ventricolare sinistra media 54%). I pazienti sono stati randomizzati ad olmesartan (N = 574) o a controllo (N = 569). L’end point primario era un composito di morte per tutte le cause, infarto miocardico acuto non – fatale, ictus non fatale e peggioramento dell’insufficienza cardiaca richiedente il ricovero ospedaliero. Nel corso di un follow – up medio di 4,4 anni, l’end point primario si è verificato in 192 pazienti (33%) nel gruppo olmesartan e in 166 pazienti (29%) nel gruppo di controllo (HR 1,18; IC 95% 0,96-1,46, P = 0,112), mentre la disfunzione renale si è sviluppata più frequentemente nel gruppo olmesartan rispetto al gruppo di controllo. L’analisi per sottogruppi ha rivelato che l’uso di olmesartan, quando combinato con entrambi gli ACE-inibitori e beta bloccanti, è stato associato ad una maggiore incidenza dell’end point primario, di morte per tutte le cause e di disfunzione renale, mentre è stato associato a un miglioramento della mortalità quando combinato con beta bloccanti solo, ma non con i soli ACE inibitori.
Commento
Quello che non …SUPPORT è che ancora sia consentito condurre trial come questo per scoprire l’acqua calda! … a meno che , non conoscendo le linee-guida giapponesi, in Giappone l’acqua calda non sia ancora conosciuta come patrimonio di tutti.